Il caregiver o anche carer è un termine inglese che significa letteralmente “colui che si prende cura”, che identifica la persona che si occupa dell’assistenza nella vita quotidiana di un malato, attendendo alle sue necessità dirette e concrete come il lavarsi, vestirsi, mangiare, gestire le medicine, fino alla gestione degli aspetti amministrativi ed economici.
Il Caregiver
Il caregiver o anche carer è un termine inglese che significa letteralmente “colui che si prende cura”, che identifica la persona che si occupa dell’assistenza nella vita quotidiana di un malato, attendendo alle sue necessità dirette e concrete come il lavarsi, vestirsi, mangiare, gestire le medicine, fino alla gestione degli aspetti amministrativi ed economici.
Il morbo di Parkinson comporta un rischio di crisi profonda e di destabilizzazione all’interno della famiglia del malato. Le richieste di cure fisiche, emotive e sociali rivolte ai familiari comportano una serie di adattamenti, di cambi di ruolo e di funzioni che portano, infine, allo sconvolgimento dell’identità e della struttura familiare, che si trova spesso a fronteggiare in solitudine il loro dramma accompagnato da un forte senso di abbandono da parte della autorità locali.
Poiché si tratta di una malattia cronica e progressiva, occorre che i familiari conoscano le sue caratteristiche per imparare ad accettarla e a gestirla, quindi senza subirla e senza lasciarsi sconfiggere dallo sconforto.
Le sfide che si presentano nella cura del malato parkinsoniano possono diventare insostenibili sia per il familiare che per il caregiver più esperto, in particolar modo quando il morbo si avvicina alle sue fasi avanzate. Il benessere dello stesso caregiver, per quanto correttamente formato, può facilmente essere minacciato da sentimenti di impotenza, di privazione della propria vita privata e quindi di rabbia e di abbandono, irritabilità, mancanza di energia, cambiamenti della regolarità del sonno, ecc. Ne consegue che la gestione psicologica del caregiver dovrà essere ripresa più volte nel corso della vita o resa addirittura continuativa.
Spesso i sentimenti di violazione della propria integrità psicofisica, rappresentata dalla diagnosi del morbo, portano alla comparsa di sintomi psicologici ancor prima di quelli motori.
In senso strettamente medico la persona si trova di colpo a dover fronteggiare quotidianamente crescenti difficoltà motorie, oltre agli sgradevoli effetti delle cure farmacologiche.
Per sopportare una situazione così destabilizzante l’individuo è portato a ricorrere a difese psicologiche interne che, se protratte oltre la gestione iniziale dell’ansia e senza un adattamento al decorso della malattia, possono assumere tratti fortemente disfunzionali. Pensiamo, ad esempio, a chi si blocca in una dimensione di negazione della malattia, e quindi alle conseguenti difficoltà nello stabilire un’alleanza terapeutica; o chi reagisce calandosi completamente nel “ruolo di malato”, abbandonando tutti i propri interessi coltivati da “sano”; o chi, al contrario, ignora il responso medico e continua la propria vita nascondendo i propri sintomi agli altri. Considerati tali rischi, diventa necessario prestare molta attenzione al primissimo periodo post-diagnosi e al percorso di accettazione della malattia. Nei gruppi di sostegno si osserva l’evolversi di varie fasi psicologiche, paragonabili a quelle classiche di diagnosi di malattia a decorso irreversibile, o di elaborazione del lutto: Fase di negazione, Fase ansiosa, Fase di rabbia, Fase di contrattazione, Fase depressiva e Fase di accettazione
La comunicazione della diagnosi di una malattia come il morbo di Parkinson causa, comprensibilmente, alti livelli di stress emotivo e di disagio psicologico. Tra i vari disturbi psichici che tendono a manifestarsi nei malati di parkinson spiccano quelli depressivi, così come dimostrato da numerosi studi scientifici che ne evidenziano l’alta incidenza, fino al 40%. Nella fase di trattamento farmacologico sono proprio le condizioni psicologiche a peggiorare, sicché diventa necessario introdurre un trattamento specifico per esse.
Nel prendersi cura di una persona sofferente, il caregiver dedica molte delle sue energie all’altro. In alcuni casi, inconsciamente il caregiver impiega nella cura e nell’accudimento del malato molte più energie e più fatica di quanta ne possiede, con il rischio di un cedimento psichico e fisico con la possibilità concreta di non riuscire ad essere nemmeno più d’aiuto.
Studi a riguardo riportano abbassamenti delle difese, aumento delle le sindromi ansiose, trascuratezze alimentari o consumo eccessivo di alcool e fumo, oltre una riduzione dell’attività fisica e delle attività sociali. Il caregiver sposta la sua verso il malato trascurando la propria esistenza.
E’ dunque di fondamentale importanza che i caregivers possano partecipare a servizi di ascolto psicologico anche occasionali, intesi ad accogliere i vissuti di sconforto e di maturazione, e a raccogliere risposte informative e supporto emotivo.
Sinteticamente alcune linee guida da seguire per riuscire a mantenersi attivi e utili accanto alla malattia del proprio familiare.
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Non dimenticare se stessi ma riconoscere, accogliendo e accettando, i segnali di limite;
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Rimanere nella rete del supporto e chiedere aiuto;
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Comprendere la malattia il più possibile chiedendo al personale sanitario;
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Lasciare il più possibile gestire al malato le sue abituali attività in autonomia;
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Condividere la propria esperienza con gli altri;
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Ascoltarsi continuamente e progettare tempi per se stessi.